Anche questa volta c’è voluto il magazine Time per scoperchiare la pentola. Era accaduto già nel dicembre del 2006 quando la copertina “YOU” gettò luce sul fenomeno del Web 2.0 e fece partire la giostra dei Social network. Così anche questa volta il Time provoca il suo audience con la copertina sulla “Me Me Me generation“, alludendo ai risultati di un’inchiesta sulla generazione dei “Millennials”.Sono i famosi nati fra gli anni ottanta e il duemila quelli che, secondo la ricerca, sono i figli dei baby-boomers degli anni Sessanta e peccano di narcisismo e ossessione per il successo.
I “Millennials” si sentono dei veri e propri “brand” e la società per loro è un mercato. Misurano il successo a colpi di “followers”, “friends” o “likes” anche se spesso le loro relazioni reali si arenano vivendo a casa coi genitori. Criticano il potere ma non sentono per niente il bisogno di rovesciarlo.
Sono delle vere e proprie marche viventi. CocaCola gli ha appena dedicato delle lattine col loro nome di battesimo. Hanno un rapporto strano con la propria immagine che però, come per ogni brand, è fondamentale. Secondo il Time “i loro genitori guardavano se
mpre una loro foto in casa, in divisa o del matrimonio, mentre loro ne hanno 85 sul telefonino, e le guardano in continuazione”. Osservando bene, su Facebook non hanno sempre foto all’altezza dell’immagine che hanno di se. Anzi, alcuni si mostrano più come star del cinema o veri e propri personaggi famosi più che per quello che sono. Altri hanno postato foto delle quali tra qualche hanno si pentiranno come dei tatuaggi che coprono il loro corpo. Non sono da meno le foto dei loro curriculum che le aziende ricevono a pacchi.
Al di la dell’immagine di se, essi postano foto come dei forsennati e si sentono onnipotenti: in fondo sono cresciuti a pane e tecnologia. Alcuni di loro sono dei veri e propri talenti, tanto da sfidare le grosse industrie, i media tradizionali e le grandi software house. Addirittura hanno inciso sulle sorti dei Governi e si sono imposti sullo schermo più di registi affermati.
Con le generazioni precedenti hanno un rapporto strano. Loro li ignorano, gli altri li temono. A parte qualche mezzo di sostentamento offerto da genitori, infatti, i “Millennials” sembrano poter fare a meno dei loro predecessori. Anzi, propongono spesso di “rottamarli”. Dopo gli studi, uno stage e qualche lavoretto sono già sul mercato come esperti di cose che i loro committenti più grandi nemmeno capiscono: Social media, stampa 3D, start-up, crowd funding, SEO, app, etc.
Secondo il Time, tuttavia, l’eccesso di autostima e il narcisismo dei “Millennials” e gli incredibili sforzi per promuovere la propria identità-brand si scontra con un mercato che li considera poco e non gli permette grandi autonomie. E non è un problema dell’Italia che, si sa, valorizza poco i talenti. Il fenomeno è planetario e solo negli USA tocca 80 milioni di giovani.
In effetti, guardando bene ai “successi” postati sui profili e alle lunghe liste di “competenze certificate” da Master e corsi non sempre seguono meriti economici rilevanti o di Status. Tanto che molte banche ancora, almeno in Italia, chiedono alla generazione precedente di garantire per loro. Sembra un paradosso, ma in realtà sono solo le leggi del sistema nel quale i “Millennials” hanno scelto di vivere: il mercato. Nel mercato, appunto, i Brand devono fare i conti con le leggi della marca. E non bisogna essere esperti di marketing per sapere che la fortuna di un brand deriva dallo scontro di due fenomeni (cognitivi): da un lato l’energia cinetica prodotta dagli sforzi generati per mostrare una certa immagine al proprio pubblico e dall’altro la massa inerziale di un pubblico che si oppone al cambiamento di abitudini.
Sociologi, psicologi, esperti e gli stessi “Millennials” hanno e avranno spiegazioni e “giustificazioni” storiche e antropologiche diverse per questi fenomeni. Migliori di quelle del Time e, ovviamente, di chi scrive queste due righe. E poi ci sono almeno “cinquanta sfumature” di Millenial, dal bamboccione (brand) al Geek (brand), dal milleurista (brand) al cervello in fuga (brand). Ma il punto è che ci sono in gioco delle aspettative, dei sogni. E anche delle precise responsabilità per le generazioni future. C’è in gioco un mondo che tutti devono rispettare e migliorare, se possibile.
Tutti si augurano che il sogno di ogni “Millennial” – stimolato dai genitori – di diventare “qualcuno” si avveri. Ma cosa sarà di chi non ci riuscirà? Forse è il momento di aiutare quei sogni a diventare progetti. Concreti progetti di vita.
[Lorenzo Sciadini]
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