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Un bel problema! Come quando in auto lo sguardo si concentra sulle tracce biologiche nel parabrezza e perde di vista l’autoarticolato lesto e rovinoso nella direzione opposta.
Ancora ci sono aziende che pensano alla qualità dei loro prodotti come a un oracolo davanti al quale il cliente si deve prostrare. Ci sono venditori nascosti dietro a un dito che si fanno scappare i clienti alla semplice obiezione “è troppo caro”. Ci sono esercenti che confondono il business immobiliare col business del commercio e poi demonizzano Amazon perché gli ruba i clienti. Ci sono quelli che usano i Social per cercare i clienti, pensando sia una forma economica di pubblicità. Ci sono aziende che affidano la loro preziosa “business continuity” nelle mani della sorte e del capo del Governo. Ci sono imprenditori che non sanno decidere se restituire l’ultimo euro disponibile a sé stessi perché hanno rischiato, oppure al cliente che ha pagato, o ai dipendenti che si sono dati da fare o magari agli investitori che ci hanno creduto o ai fornitori che ancora non sono stati pagati. O magari pagarci le tasse, perché ci sono anche quelle.
Ci sono aziende che fanno business esattamente come sessant’anni fa, quando per la prima volta Jerome McCarthy fece notare che con le sue famose 4P si poteva battere la concorrenza. Bastava un prodotto migliore, un prezzo migliore, una distribuzione migliore, una promozione migliore e il gioco era fatto. Un prodotto migliore oggi è la condizione minima per iniziare ma non è sufficiente nemmeno per stare a galla. Figuriamoci per competere. Ecco perché le aziende migliori puntano al cliente. Bisogni, desideri, emozioni, pensieri quelle cose che non si vedono ma finiscono per essere più importanti di ogni materia prima. Agli aspetti pratici le aziende hanno imparato ad affiancare gli aspetti emozionali. E tutto ha funzionato finché non è arrivato il nuovo millennio. Un passaggio sfuggito a molti, perché – forse – distratti dal Millennium bug o dall’arrivo dell’Euro. Ma che ha cambiato per sempre le sorti del business. In ogni parte del mondo, da oriente a occidente le persone si sono svegliate e hanno capito che al mondo nulla è più importante delle cose importanti: i valori! Un colpo di spugna ad anni di consumismo, globalizzazione, sfruttamento delle risorse, finanza pirata.
Poi di nuovo qualche distrazione di massa col boom dei Social, qualche guerra, un paio di crisi finanziarie globali, due o tre pandemie ed eccoci qua. A chiederci se le scuole riapriranno dopo le ferie, se vendere online è davvero vantaggioso o se conviene andare direttamente nel Metaverso. La realtà è che stiamo mancando la più grande opportunità degli ultimi 300 anni. Si tratta di ripensare la società e l’economia, è una cosa seria. Intelligenza artificiale, elaborazione del linguaggio naturale, Internet delle cose hanno il potere di cambiare le regole del gioco, per sempre. Un gioco dove le persone vengono prima di ogni altra cosa. Dove gli individui non hanno colpe per i loro consumi ma sono i consumi stessi a migliorare il Pianeta. Dove non hanno peccati originali da scontare nei confronti di Madre natura ma possono finalmente rendere abbondante ciò che in natura appare limitato coi doni dell’intelligenza, della creatività e della tecnica ma anche della grazia, della bellezza e dell’umanità di cui siamo dotati “by design”.
In passato fare affari era più semplice e davvero in moltissimi sono riusciti a farlo. In Italia l’80 percento delle persone ha una casa di proprietà, il 20 percento una seconda casa e la liquidità parcheggiata sui conti corrente nazionali è impressionante.
Dagli anni Sessanta a oggi le cose sono cambiate almeno un paio di volte, due periodi in cui valeva veramente la pena ripensare tutto. È accaduto una volta negli anni Settanta, quando il cliente è diventato più importante di ciò che le aziende avevano da offrire e un’altra dopo il duemila, quando i valori sono diventati più importanti di ogni altra cosa importante. Due larghi giri di boa nei quali le imprese più visionarie si sono fatte spazio, o sono nate sulle ceneri di altre, rimettendo in discussione proprio tutto, prosperando e crescendo di continuo. Tutti gli altri hanno solo strisciato da una crisi all’altra, dando la colpa alla globalizzazione, prima e poi a Internet e oggi – ultimo appiglio – alla pandemia. Queste imprese cercheranno sempre una scusa plausibile fuori da sé per evitare di mettere in discussione le proprie credenze e il proprio modello di business. Ma oggi la sfida – anche per loro – è infinitamente più complicata. La convergenza di due transizioni, quella digitale e quella circolare, rischia di fare piazza pulita e di costringere tutti a un profondo esame di coscienza, umano oltre che imprenditoriale.
Le conseguenze del mancato cambiamento non sono solo legate ai mercati e alla competizione, tutt’altro. Il problema ora è molto più grave! La ricchezza generata negli ultimi decenni è stata distribuita male polarizzando la società: le occupazioni, le ideologie, gli stili di vita e perfino i mercati sono polarizzati. Da un lato ci sono le priorità essenziali e dall’altro le ideologie contrastanti: ecco, il conflitto è servito. Continuare a rimandare la trasformazione servirà solo a far sparire le classi socioeconomiche di mezzo e a inasprire ancor più la polarizzazione tra chi sta al vertice e chi alla base della piramide sociale. Sia chiaro, le aziende se ne sono accorte: ecco perché promuovono la responsabilità sociale, l’inclusività e la sostenibilità. Ma non c’è SDG’s che tenga se non si cambiano le fondamenta delle imprese. Anzi, la loro anima! Perché ciò che deve cambiare sono prima di tutto i valori.
Perché ora o mai più? Perché i pianeti si stanno allineando. Perché per la prima volta nella storia le imprese hanno a che fare con cinque generazioni diverse: Baby Boomer, Generazione X, Generazione Y, Generazione Z e Generazione Alfa. Cinque generazioni per cui sono importanti valori differenti. Le prime quattro generazioni sono la vera forza lavoro coi nati tra gli anni ’40 e gli anni ’60, molti sono ancora attivi nel mondo del lavoro. Ma nella società i ruoli importanti sono spesso ricoperti dai cosiddetti figli di mezzo, i nati fino agli anni 80. Mentre la componente maggiore della forza lavoro è costituita dai nati fino alla metà degli anni 90. Chi viene dopo è più giovane ma non per questo meno influente perché i nativi digitali sono molto più orientati a “fare la differenza” piuttosto che a “essere differenti” come i loro genitori.
Senza la tecnologia questa sfida è inavvicinabile. Non c’è patrimonio o know-how che tenga. Dobbiamo smettere di avere paura della digitalizzazione. E una cosa dell’umanità e deve portate benefici all’umanità. Ciò che serve per superare l’ennesima polarizzazione “uomo-macchina” è proprio l’umanizzazione. L’umanizzazione della tecnologia. Questa la prossima vera sfida.
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